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sabato 29 settembre 2018

XVIII PREMIO ANTONIO DE NINO CONFERITO A ADRIANO MONTI BUZZETTI COLELLA GIORNALISTA RAI E STORICO

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PRATOLA - Il PREMIO ANTONIO DE NINO, tenutosi presso l’aula magna dell’istituto comprensivo di Pratola Peligna, quest’anno è stato assegnato al giornalista RAI e Storico Adriano Monti Buzzetti Colella. Oltre ai tanti partecipanti, all’evento c’è stata la grossa novità rappresentata dalla partecipazione degli alunni dell’Istituto che hanno potuto così scoprire la figura e l’opera dell’illustra pratolano. La giuria dell’Associazione Centro Nazionale Di Ricerca Antonio De Nino ha voluto assegnare il premio al dottor Adriano Monti Buzzetti Colella per le sue qualità espresse come saggista e giornalista. La cerimonia si è aperta col saluto agli intervenuti del vicepreside dell’Istituto Lorenza Cianfaglione.
Alla manifestazione hanno partecipato anche il sindaco Antonella Di Nino che tra l’altro ha sottolineato l’importanza dell’istruzione. La dottoressa Anna Dioniso, del SAPAP Abruzzo, ha soffermato l’attenzione sulla grandezza culturale del “peligno della grande stirpe” con la relazione su  “Antonio De Nino, archeologo … e non solo!” Di seguito il suo intervento:
“Ho accettato con piacere di esporre una breve sintesi degli aspetti principali della figura di Antonio De Nino come archeologo, non solo perché obiettivamente è un personaggio affascinante e strettamente legato al nostro territorio, ma anche per motivazioni più personali. Avendo svolto il dottorato di ricerca sulla romanizzazione della valle peligna, infatti, mi sono trovata praticamente ogni giorno a confrontarmi con i suoi scritti, con le sue riflessioni, con la sua sconvolgente modernità e lucidità di valutazione, ed è per me un onore parlare di quello che è considerato a buon diritto il padre dell’archeologia abruzzese.     
Antonio De Nino nasce a Pratola Peligna nel 1833. E’ un periodo in cui l’Italia sta vivendo un momento di grande trasformazione, gli italiani sono già in cerca di un’identità comune e presto, nel 1861, vi sarà anche un’unità politica. Il piccolo Antonio mostra una certa indipendenza di carattere e inizia a studiare da autodidatta, perché non trova più soddisfacente accontentarsi del programma scolastico. Ad appena 10 anni quindi inizia ad approfondire l’italiano, il latino, la storia ma anche il dialetto, convinto dell’importanza di preservare la lingua tradizionale. Anche in questo, come in tanti altri aspetti, anticipa i tempi. Già da allora, come lui racconterà ormai anziano nel 1904, inizia a nutrire una passione per l’archeologia: narra infatti che da bambino, in chiesa, la mamma per tenerlo buono gli spiegava il significato di quadri e statue, e allora, secondo le sue parole, …”un piccolo ciborio mi appariva come una grandiosa basilica. Questi ingrandimenti immaginari, fatto adulto, mi portarono allo studio degli edifici reali che ricordano civiltà, grandezza, religione dei nostri avi. E giacché non pochi di questi edifici si trovano ancora sotterra, cominciai a sentire la febbre degli scavi. I pochi ruderi sporgenti dalle macerie mi facevano vedere tutto un complesso, come sotto un terso cristallo…”.
Se penso al suo rapporto con l’archeologia, posso affermare che il titolo di questo breve intervento è veramente molto appropriato. Antonio De Nino non è “solo” archeologo, non è “solo” letterato, non è “solo” demoetnoantropologo: è veramente un intellettuale a 360 gradi, tanto che Gabriele D’Annunzio, uno dei suoi più cari amici, iniziava le lettere che gli inviava con “Tu che sai sempre tutto”… proprio perché il suo studio continuo e costante gli aveva permesso di acquisire una cultura enciclopedica. Eppure il suo atteggiamento sarà sempre di grande umiltà e non cercherà mai di farsi notare o di mettersi in mostra.
Già dal 1874 inizia a pubblicare i risultati di piccole ricognizioni archeologiche a Corfinio, Sulmona e nella valle subequana. Un tratto costante della sua vita è che viaggiava a piedi in lungo e in largo, instancabilmente, segnalando e scoprendo qualsiasi testimonianza antica in territorio abruzzese; eppure, le autorità del campo faticarono all’inizio a riconoscere il suo valore. E’ una figura che oggi ci desta anche simpatia, dal punto di vista umano, perché come molti studiosi giovani e meno giovani è stato per molto tempo sminuito. In quegli anni era stata identificata un’area archeologica a Corfinio, ma inizialmente la Direzione generale alle antichità aveva scelto come direttore degli scavi l’allora ispettore onorario Leosini, perché era più noto e aveva già una carriera avviata. Ma il momento della soddisfazione arriva ben presto: Leosini non era entusiasta del compito o forse non ne era all’altezza, e il Ministero lo affidò finalmente a De Nino.   
il 1877 per lui fu un anno eccezionale perché iniziò le ricerche nella necropoli di Campo Consolino ad Alfedena e quasi in contemporanea quelle a Corfinio, scoprendo l’estesa necropoli della via di Pratola e quella che è forse la più importante e famosa delle iscrizioni peligne, la cosiddetta “iscrizione di Herentas”, che consegna poi al Museo Nazionale di Napoli dove si trova ancora oggi. L’anno dopo, per difficoltà personali, vorrebbe interrompere il lavoro ma poi si convince a continuare, guadagnandosi finalmente nuovi successi e scoperte e anche un certo prestigio.
Dopo pochi anni, viene nominato ispettore onorario alle antichità e abbiamo moltissime pubblicazioni delle sue scoperte nel Bollettino di archeologia, nelle Notizie degli scavi di antichità dell’Accademia dei Lincei, ma anche un carteggio fittissimo con il direttore alle Antichità Giuseppe Fiorelli, composto di relazioni, appunti, disegni, planimetrie degli scavi, calchi di iscrizioni romane e preromane. Io stessa ho trovato molto di questo materiale scritto proprio dalle sue mani nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma ed è stata un’emozione fortissima leggere quelle pagine e toccare i suoi calchi, che lui ricavava per contatto con fogli bagnati appoggiati direttamente sulle iscrizioni! Nel frattempo, la sua fama cresceva tra gli intellettuali di tutta Italia e anche oltre, tanto che grandi epigrafisti come Conway e il russo Ivan Zvetaieff, e il grandissimo storico Mommsen, lo ammirano e lo considerano lo scopritore del “dialetto” peligno. E’ anche grazie a lui e alla sua opera di censimento e schedatura delle iscrizioni se gli studi sulle lingue italiche hanno ricevuto un grande apporto di conoscenze nella prima metà del Novecento. 
Lo troviamo poi impegnato nelle ispezioni durante la costruzione della tratta abruzzese della ferrovia Roma-Sulmona, attorno al 1890, e anche in quel caso scopre tombe e resti di costruzioni indagando soprattutto l’area della necropoli di Zappannotte, a ovest dell’abitato, e negli anni successivi investiga in tutta l’area ai piedi del Morrone tra Bagnaturo e Roccacasale e nella necropoli di Fonte d’Amore, scoprendo le prime tombe a grotticella. De Nino fonda anche i musei civici di Sulmona e di Corfinio; il MAS oggi ha sede nel Palazzo della SS. Annunziata e ospita in esposizione alcuni materiali delle collezioni De Nino e Piccirilli, insieme a quelli provenienti dagli scavi recenti, mentre le iscrizioni da lui rinvenute a Sulmona e dintorni sono in parte esposte sempre all’Annunziata e in parte conservate nel magazzino dello stesso Museo; il Museo di Corfinio invece era originariamente collocato nell’oratorio di S. Alessandro a Valva, dove oggi si trova ancora il lapidario con gran parte delle iscrizioni corfiniesi, mentre l’esposizione è stata spostata in paese, dove il museo è stato riaperto nel 2005. Vale assolutamente la pena di visitare entrambi i musei; nel piano terra del museo di Corfinio, tra l’altro, è stato allestito uno studio che riproduce in maniera molto suggestiva quello di Antonio De Nino con arredi d’epoca, materiali archeologici della sua collezione e alcune lettere e appunti originali da lui scritti.   
Se leggiamo le sue relazioni rimaniamo colpiti dalla modernità del suo impianto scientifico e dall’assoluta onestà intellettuale della sua ricerca: non cerca mai di rendere le cose più “interessanti”, il suo scopo è riportare i risultati delle scoperte senza aggiungere e senza togliere nulla. Addirittura, anche se il metodo stratigrafico moderno è stato applicato all’archeologia non prima della seconda metà del Novecento, lui già utilizzava una forma di differenziazione degli strati archeologici rispettandone la cronologia relativa e la successione; mentre gli altri eruditi e studiosi dell’epoca si accontentavano di effettuare un semplice sterro per liberare le strutture, selezionavano gli oggetti più “belli” scartando le ceramiche comuni, o riportavano gli elenchi di materiali senza attenzione ai singoli contesti, lui ci ha lasciato descrizioni talmente analitiche e rigorose che siamo riusciti, negli ultimi anni, a ricostruire dei corredi di singole tombe a partire dalle sue descrizioni rintracciando i materiali nei magazzini dei musei di Corfinio e della Civitella di Chieti. Un esempio è la tomba della sacerdotessa di Cerere Saluta Scaifia, che è ora esposta a Corfinio al primo piano del museo.  
Oltre agli scavi e agli studi di antichità, il De Nino continua per tutta la sua vita a raccogliere informazioni e schedare monumenti e opere d’arte in tutto il territorio abruzzese, soprattutto per renderli noti e identificabili, e quindi per impedire che siano trafugati e venduti illegalmente. Nel 1904 tutto questo lavoro viene raccolto in un Sommario dei monumenti e degli oggetti d’arte; doveva essere solo l’inizio di un’opera che intendeva approfondire, ma non ebbe mai i mezzi economici per farlo. Il più delle volte, infatti, lavorò completamente gratis, sostenuto solo dalla sua passione, risparmiando sul suo stipendio di insegnante per poter finanziare da solo le sue ricerche. Anche il Sommario fu pubblicato a sue spese. Tre anni dopo, nel 1907, Antonio De Nino muore nella sua casa a Sulmona, a 74 anni.       
Antonio De Nino è in fondo una figura sempre giovane ed attuale per certi aspetti, anche se ci separa da lui un secolo e mezzo. Giovane perché il suo carattere irrequieto lo portava a farsi domande, a guardare oltre, a non accontentarsi delle risposte preconfezionate, e questo è un punto in comune con i ragazzi di tutte le epoche. Lo scrittore Fitzgerald affermò che “A diciotto anni le convinzioni sono le colline da cui ci affacciamo alla vita. A quaranta sono le caverne in cui ci nascondiamo”. Il vero studioso è quello che riesce ad avere un atteggiamento aperto ma anche lucido e onesto nei confronti della realtà per tutta la sua vita, ed uno dei tratti affascinanti del De Nino è proprio questa estrema curiosità, unita al desiderio di mettere a disposizione della collettività quanto emergeva dalle sue ricerche e soprattutto all’amore viscerale per l’Abruzzo. Potrei concludere con un’altra citazione, stavolta del grande storico, archeologo e letterato Giacomo Devoto, che mi sembra adatta a riassumere la vita e la personalità di Antonio De Nino e di tutti i curiosi per natura: “Ognuno di noi ha possibilità limitate di dire cose definitive, ma doveri immensi nel guardarsi attorno”. Questo è il mio personale augurio per tutti i ragazzi e gli adulti qui presenti oggi”.

Il presidente della associazione, professor Emiliano Splendore, ha riportato la biografia e bibliografia ed i tanti riconoscimenti ottenuti dal vincitore del premio 2017. Il dottor Monti Buzzetti Colella, prima di ricevere il premio, ha piacevolmente relazionato sul De Nino letterato e sulla poliedricità delle azioni culturali  e sul carteggio De Nino-D’Annunzio. Ecco il suo intervento:
“Permettetemi di esordire con un pensiero riconoscente per gli organizzatori di questa giornata: il Sindaco, gli esponenti della Municipalità, e naturalmente ai “dioscuri” del Premio “De Nino”, i professori Splendore e Cianfaglione, che ringrazio per le generose parole di elogio. Grazie anche ai tanti cultori ed estimatori delle tradizioni d’Abruzzo, che hanno voluto essere qui oggi. Un saluto particolare, infine,  agli alunni dell’Istituto Tedeschi in cui prefiguriamo forze, entusiasmi, ed energie future di questa terra che tanto amiamo, e che proprio dagli antichi insegnamenti del vecchio signore dall’aria un po’ austera – così ce lo presentano i vecchi dagherrotipi – al quale è intestato questo Premio, il canuto studioso che sempre visse col cuore e la passione di un bambino, possono trarre spunto per approfondire e motivare la propria identità di Abruzzesi e di Peligni.
E’ quasi superfluo dire quanto mi onori questo riconoscimento che con grande benignità gli organizzatori del Premio hanno voluto concedermi quest’anno, e che idealmente accosta la mia persona e le mie piccole fatiche intellettuali non solo alla   a memoria – spero benedicente! – di un gigante della cultura abruzzese ed italiana come Antonio De Nino, ma anche a coloro che posso oggi a buon diritto chiamare miei “fratelli maggiori”, vale a dire gli altri nomi illustri - vecchi amici, in più di un caso -  che prima di me hanno ricevuto gli allori di questa importante benemerenza.
Devo ammettere anzitutto che essendo il sottoscritto giornalista in servizio permanente effettivo, ma anche scrittore e saggista “a corrente alternata”, la proposta fattami da Emiliano Splendore di illustrare, sia pure per brevi cenni, la fisionomia del De Nino letterato mi è parsa subito molto intrigante. Soprattutto perché si tratta di non percorso in qualche modo non troppo convenzionale. De Nino fu infatti personalità talmente eclettica - quasi rinascimentale, si potrebbe dire, nella sua poliedricità - e così sovralimentata da un’inesausta curiosità intellettuale, da una fame insaziabile di conoscere e di divulgare, che come sovente accade a personalità tanto complesse alcuni aspetti del loro lavoro risultano in qualche modo compressi e sottovalutati dalla stessa preminenza di alcuni dei loro vasti interessi. I biografi cercano sempre un tratto distintivo, una cifra esistenziale da mettere a suggello di una vita. E così inevitabilmente noi ricordiamo come preponderanti e quasi esclusivi della sua figura gli aspetti della demologia, degli studi folclorici e dell’archeologia regionale, in cui De Nino eccelse e dei quali è universamente riconosciuto come un pioniere; non solo in Italia e non solo oggi, visto che lui vivente ne tesseva le lodi un accademico come Robert Conway, tra i maggiori studiosi di lingue antiche dell’Ottocento,  e che un intellettuale del calibro Luigi Pirandello poteva dire del Nostro a ragion veduta: “per noi De Nino era tutto l’Abruzzo…”.
De Nino era dunque il più accreditato araldo culturale della sua terra d’origine: il “rivelatore dell’Abruzzo”, come opportunamente si è scritto di lui, per i suoi contemporanei ed anche per i posteri. Non fu solo indagatore e catalogatore tenace di reperti e vestigia tangibili del passato, ma anche instancabile documentatore errante di proverbi, canti, giochi di fanciulli, filastrocche, consuetudini, tradizioni…insomma di tutto il vasto patrimonio immateriale di “archeologia umana” proprio di una terra antica e ricchissima di memorie.
Tutta questa attività però è percorsa da un quid specifico ed originale; un’indole che è per l’appunto letteraria e che fa di qualcosa di diverso dallo stereotipo del freddo e distaccato analista. De Nino narrava, non si limitava a redigere. Era perciò “anche” uno scrittore, attitudine che metteva al servizio della visibilità di cose che amava profondamente e dalle quali si sentiva definito. V’è da dire che questo tratto distintivo in parte gli ha anche nuociuto; critici ad alto peso specifico – uno per tutti il palermitano Giuseppe Pitré, uno dei padri della scienza folclorica nel nostro Paese – tacciarono infatti a più riprese il suo lavoro di “romanticismo”. In un periodo nel quale i nascenti studi di settori si orientavano al più stretto positivismo, si obiettava in altri termini che le ricerche di De Nino non avessero quell’estraneità che è richiesta allo scienziato nel confrontarsi con l’oggetto della sua analisi. Gli difettava, se vogliamo, anche il senso di superiorità e di noblesse proprio dell’atteggiamento dell’erudito antropologo nello scandagliare suggestioni, sentimenti e credenze dalle quali l’esperto si dichiara imprescindibilmente “altro”. Basti pensare ad una delle più celebri opere del pur fondamentale dello studioso sulmonese Giovanni Pansa “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo”… la distanza si percepisce già nel titolo.
Oggi, al netto di quelle ingenuità proprie di una metologia d’indagine all’epoca praticamente neonata, e dunque storicizzandone doverosamente anche i limiti, possiamo dire col conforto di tanti studiosi che quelle critiche erano sostanzialmente ingiuste. La partecipazione benevolente ed affettuosa di De Nino alla materia della sua indagine non inficiava l’obiettività ed il rigore filologico del suo lavoro. E lo stesso può dirsi dei suoi evidenti sforzi, questi sì propriamente letterari, per rendere la materia antropologica meno “esoterica” e quindi più divulgabile, con l’obiettivo di uscire dal cenacolo ristretto degli addetti ai lavori e raggiungere il maggior numero possibile di cittadini di quella nuova Italia unita in cui De Nino, da patriota convinto, aveva creduto con tutto se stesso: giova qui ricordare le sue letture giovanili del Primato di Gioberti, come pure l’entusiastica cronaca giovanile che redasse del passaggio di Re Vittorio Emanuele, futuro Padre della Patria, II a Pratola nel 1860.
Cifra distintiva dello stile di  De Nino è anche la partecipazione a quella che chiamava “la semplice, vigorosa e snella persona del nostro popolo”; un popolo del quale si riteneva parte integrante, non certo “casta”.  Condividendo con esso, tra l’altro, anche l’imperativo di un riscatto sociale delle classi più povere: non è casuale la severità dello studioso pratolano nel commentare i secoli bui del “servaggio” di generazioni di contadini sotto il regime feudale dell’Abbazia Celestiniana.
Tutti questi sentimenti componevano l’originale fisionomia di un “intellettuale organico alla propria gens” per usare una bella definizione di Emiliano Splendore, moderna eppure ammantata dal panneggio di vicende millenarie.  Antonio De Nino percepiva l’Abruzzo, la Valle Peligna e la sua Pratola come “piccole Patrie” accanto a quella grande e da poco redenta; e tale sentire non mutò nemmeno quando, trasferitosi a Sulmona e divenuto ormai esperto di chiara fama, riceveva insigni cattedratici nella sua cava divenuta sosta obbligata per qualsiasi luminare che volesse compiere scavi o studi in Abruzzo. Giusto un pizzico di ritrosia lo frenava dal palesare troppo, di fronte ad insigni cattedratici italiani e internazionali, i suoi legami ancestrali con il paese natio. Ma di questo possiamo certamente scusarlo: è l’atteggiamento tipico dello scolaro che non sapeva di essere un maestro.
Tutte queste sfumature trovano in De Nino la loro sintesi in un approccio che, come si diceva, è “anche” letterario.  La visione e la sensibilità di uomo di lettere e di scrittore rappresentano quindi una chiave interpretativa interessante, e quasi mai ricordata, per entrare in sintonia con l’uomo e lo studioso. E’ un percorso di vita che parte da molto lontano. L’intellettuale pratolano nasce in una famiglia di scarsi mezzi, ha un rapporto difficile con la scuola convenzionale che lascia molto presto prendendo a libri in testa il suo precettore in tonaca. Un inizio che sembra una fine, eppure a guidare il ragazzo c’è un bisogno che non si placa: l’anelito al sapere percepito quasi come un languore fisico. Ecco dunque lo studente riottoso tornare all’istruzione da autodidatta, leggendo di tutto e  con instancabile tenacia. “Studiavo quasi mendicando i libri”, ricorderà lui stesso. I primi cimenti da pubblicista arrivano con Dante, Machiavelli, Pellico, Leopardi; poi De Nino diventa insegnante, e collaboratore quasi compulsivo di una miriade di riviste. I suoi lavori, guarda caso, prima che da archeologi e antropologi vengono apprezzati da artisti e scrittori con cui stabilisce contatti e rapporti di valore. E’ il caso del già citato Pirandello ma anche di Carducci, di De Amicis, del mio remoto parente e consanguineo Edoardo Scarfoglio, per arrivare alla ben nota amicizia con Gabriele D’Annunzio. E’ noto che nel 1881 De Nino condusse il Vate a Pentima in compagnia  di due eminenze dell’arte abruzzese, il pittore Francesco Paolo Michetti  e lo scultore Costantino Barbella,  mostrando agli illustri ospiti il cuore archeologico dell’antica Corfinium e le vestigia della metropoli peligna che proprio grazie a lui, nominato Ispettore onorario ai monumenti, guadagnava la prima notorietà nazionale e internazionale. D’Annunzio, grande poeta ma anche un sublime… e rielaboratore di cose altrui, a più riprese utilizzò De Nino come consulente editoriale, pescando a piene mani dall’opera Usi e costumi abruzzesi del pratolano per abbellire con riferimenti “etnici” le sue più celebri  opere di ambientazione regionale, La Figlia di Iorio e La Fiaccola sotto il Moggio. “Caro Antonio, tu che sai tutto…”, “Peligno della grande stirpe” ed altri lusinghieri appellativi non mancavano mai nella corrispondenza che il rampante pescarese indirizzava a De Nino: da seduttore consumato, il giovane Ariel sapeva bene come blandire affettuosamente l’amico.  Per La Figlia di Iorio, in particolare, la collaborazione col “Peligno della grande stirpe” si rivelò indispensabile: alla vigilia della sua pubblicazione in francese, Oltralpe divampò una feroce polemica letteraria seguita alla scoperta che D’Annunzio aveva saccheggiato con grande disinvoltura l’opera dell’antropologo francese Georges Bataille relativa al folklore bretone, adattandola al contesto aprutino. L’accusa formale di plagio era dietro l’angolo, e per cavarsi d’impaccio il poeta si rivolse subito a De Nino affinché rendesse più credibilmente abruzzese la sua tragedia suggerendogli aggiunte e limature. Il generoso pratolano lo aiutò anche quella volta, con suggerimenti che oggi chiameremmo da editor. Anche nel secondo libro del romanzo Il Trionfo della Morte, le descrizioni di Guardiagrele sono debitrici dell’opera di De Nino, come pure la figura del predicatore-eretico ottocentesco Oreste de Amicis di Cappelle sul Tavo (TE), sorta di Savonarola abruzzese fuori tempo massimo a cui De Nino aveva dedicato il suo studio Il Messia d’Abruzzo e di cui D’Annunzio sfruttò gli aspetti caratteriali più tormentati per modellare il latente cupio dissolvi del protagonista del suo libro, il decadente esteta Giorgio Aurispa.
Come ricordava il compianto Giuseppe Papponetti, è assai probabile che alla morte di De Nino nel 1907 D’Annunzio, preso nell’usuale turbinio di  vicende amorose, lo avesse probabilmente già dimenticato da tempo; ai tempi d’oro della loro proficua (per lui) collaborazione, invece, si dimostrò tutt’altro che ingrato. Il giorno successivo alla trionfale prima della Figlia di Iorio alla Scala di Milano, scrisse prontamente a De Nino per ringraziarlo e dirgli quanto il suo lavoro dietro le quinte fosse stato pubblicamente lodato ed apprezzato. La risposta di De Nino fu una sorta di haiku, una poesia in veste di telegramma, che affidava la sua soddisfazione all’aulica allegoria di un abbraccio tra un fiume peligno ed uno lombardo: “L’Aterno e l’Olona si abbracciano. De Nino esulta”.
Una replica dunque quasi lirica, in linea con l’immaginifico interlocutore; ma soprattutto, in qualche modo, la replica di un “collega”. Tale probabilmente anche il concetto che lo stesso D’Annunzio aveva di lui; e tale De Nino fu sotto più di un aspetto, sebbene alle sue cose prettamente letterarie De Nino non diede mai gran peso, chiamandole “lavoretti”, “opericciole”, con quel senso del limite e quella ritrosia che furono suoi tratti distintivi e che gli guadagnarono l’affetto di tante persone più o meno celebri.
Tuttavia la stoffa gli non mancava, nonostante lo stile un po’ fuori moda. Le sue prove poetiche, pubblicate nel 1869 in un volume chiamato semplicemente Versi e, a quanto mi consta mai ristampate, sono praticamente introvabili: solo tre biblioteche italiane ne posseggono un volume ciascuno. Meno raro il volume in prosa chiamato Briciole Letterarie, pubblicato molto più tardi nel 1884 dall’editore Carabba di Lanciano; io ne posseggo una copia fotostatica, ma a differenza dell’altra quest’opera risulta reperibile in Rete. Sono convinto che i tempi sarebbero maturi per una nuova pubblicazione, corredata magari da un congruo apparato critico: è un suggerimento che lancio agli editori locali e non solo.
Come scriveva Antonio De Nino? Naturalmente come un uomo del XIX secolo, quindi con una prosa che oggi troveremmo un po’ ridondante. E tuttavia con una vena scherzosa decisamente efficace nello stemperare, almeno in parte, quella leziosità e quel periodare farraginoso che oggi rendono irrimediabilmente distanti i lavori di autori come Pindemonte o D’Azeglio, un tempo imprescindibili e oggi “sepolti con le loro ossa”, come direbbe il Gran Bardo Shakespeare.
La distanza lessicale permane anche in De Nino, ma quella temporale non si percepisce in modo tanto marcato, risultando a conti fatti più stemperata. Il merito è proprio del suo vissuto particolarissimo: a scrivere, infatti, sono tanti De Nino messi insieme. Non è solo l’aureo letterato a prendere in mano la penna; ad accompagnarlo ci sono il maestro elementare, il pedagogo abituato a farsi intendere da scolari non sempre attentissimi, ma soprattutto l’antropologo on the road che instancabile girava l’Abruzzo ascoltando e dialogando con pastori, filatrici, mezzadri. Un costante dialogo “dal basso” verso l’alto e viceversa, senza soluzione di continuità e senza iati snobistici, per carpire dai suoi interlocutori gli antichi lacerti di un umanesimo profondo e quasi elegiaco: la sapienza ancestrale degli umili, che De Nino cercava di esprimere e valorizzare.
Questo sforzo lo troviamo appunto nelle Briciole Letterarie che furono sotto ogni aspetto il vero “Zibaldone” di Antonio De Nino: una miscellanea di ricordi, appunti di viaggio e di vita, dettagli su scavi archeologici, profili biografici di personaggi celebri e non, abruzzesi d’indiscussa rinomanza come Gabriele Rossetti oppure più folcloristici come Giuseppe Catoni, il celebre “gigante di Acciano”. Non mancano momenti di partecipata intensità, come il racconto dei giorni trascorsi a Pentima - l’attuale Corfinio - con il barone di Stoffel, aiutante di campo di Napoleone III impegnato ad analizzare reperti archeologici per aiutare l’imperatore a redigere la sua biografia di Giulio Cesare. Due paginette chiuse dal resoconto della sera a San Pelino in cui i due uomini si ritrovano soli, e proprio ad un commosso De Nino tocca informare il vecchio bonapartista della morte prematura del principe Eugenio, ucciso in Africa dalle lance degli Zulu. Nelle Briciole c’è dunque un po’ di tutto: con sapida ironia si narra di personaggi e vicende attraversate dall’esperienza del narratore, ma c’è spazio anche  per spazio sull’analisi dei tipi umani, dei loro vizi e virtù, e più in generale delle stranezze della vita. Il tutto sempre con una divertita indulgenza che mai, o quasi mai, assurge a giudizio censorio.
Se dunque come diceva Voltaire “la scrittura è la pittura della voce”, De Nino era un pittore della domenica non privo di talento. Raramente è il collaboratore dell’Accademia dei Lincei, il Commendatore o l’erudito a prendere la parola. Il palcoscenico della narrazione è tutto per l’uomo Antonio De Nino: un uomo innamorato dell’Abruzzo, dei suoi boschi, dei suoi eremi, delle sue rocce, dei suoi silenzi.
Hokusai, un grande pittore giapponese, si autodefiniva scherzosamente “il vecchio pazzo per la pittura”; Con l’ironia e la modestia che lo caratterizzavano, De Nino non avrebbe avuto difficoltà a far sua la frase, ribattezzandosi “il vecchio pazzo per l’Abruzzo”; questa sua semplice immediatezza ce lo rende, se possibile, ancora più caro.
Il suo sogno era quello di aprire lo “scrigno” dell’Abruzzo. E rendere l’antica terra dei pastori - terra avara, isolata dalle grandi rotte politiche della nuova Italia, terra cinta dall’abbraccio geloso delle montagne, terra che era stata periferia estrema e spesso negletta del Regno duosiciliano - un grande tesoro di umanità degnamente rappresentato, e divulgato, accanto alle altre culture che ieri come oggi compongono il mosaico culturale ed antropico del “paese dei campanili”. Credo che a questo sogno anche noi, grandi e piccoli, giovani e meno giovani, possiamo e dobbiamo a buon diritto ispirarci. Niccolò Tommaseo, patriota i cui scritti furono amorevolmente frequentati dal giovane da De Nino, scriveva che “chi non sente l’amicizia dei luoghi non ama davvero neanche le persone”. Ecco , per De Nino – a buon diritto Maestro di tutti noi - l’amicizia del suo Abruzzo era qualcosa di vero e di profondo: un sentimento fondante, non una posa estetizzante. L’augurio per tutti, ma soprattutto per i più giovani, è di scoprire quanto anche per loro sia importante coltivare, esplorare, vivere l’amicizia con la loro terra”.
La cerimonia si è conclusa con l’assegnazione del premio consegnato dal prof Mauro Cianfaglione , segretario della associazione ed ideatore del Premio De Nino giunto alla sua XVIII edizione.