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mercoledì 5 settembre 2018

"GABRIELE D’ANNUNZIO E I SUOI PASTORI"

"Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.Ora in terra d’Abruzzi i miei pastorilascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono all’Adriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor d’acqua natìarimanga ne’ cuori esuli a confortoche lungo illuda la lor sete in via.Rinnovato hanno verga d’avellano.E vanno pel tratturo antico al piano,quasi per un erbal fiume silentesu le vestigia degli antichi padri.O voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!Ora lungh’esso il litoral camminala greggia. Senza mutamento è l’aria.Il sole imbionda sì la viva lanache quasi dalla sabbia non divaria.Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori.Ah perché non son io co’ miei pastori? L’AQUILA   -   Quelli   sopra   riportati   sono   i   versi   di   una   celebre   poesia   che  GabrieleD’Annunzio  (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938) scrisse nel 1903, conosciuta con iltitolo “I pastori”.
Il titolo autentico della lirica è “Rimembranze”, ed effettivamente ci fatornare alla mente un Abruzzo ancestrale. Trasuda da questi versi, appresi da bambini suibanchi   di   scuola,   l’atmosfera   di   quel   mondo   che   i   racconti   dei   nostri   nonni   ci   hatramandato, quando, nel mese appena entrato, i loro padri partivano con le greggi verso laPuglia, camminando per  giorni  lungo  “il tratturo  antico”.   Odori,   sapori, voci e  rumorisettembrini sembrano  sprigionarsi da  ogni  parola. Una  malinconia infinitamente  dolcesgorga dalla penna del poeta, che quasi accarezza da lontano la sua terra madre.Sembra   di   vedere   la   scena,   a  San   Pietro   della   Jenca,   a  Chiarino,   a  CampoImperatore, o nelle montagne della Maiella, in quei luoghi dell’anima che la memoriaha custodito. Nell’aria frizzante del mattino, ecco i pastori con il cappello, il mantello, anzi“la mantella”, il tascapane rifornito dalle donne di casa a tracolla, e le fanciulle in fiore chesalutano   il   papà  che   si  accinge   a  partire   con  il   bastone  per   compagno;  mentre   i  caniabbaiano a lungo prima di correre in aiuto al padrone. E, finalmente, ecco il fiume di lanache inizia a scorrere, tra il belato delle pecore e i fischi ritmati dei pastori. La transumanza:vera epopea! Meriterebbe che ci si scrivesse un romanzo. Chissà…

Gabriele D’Annunzio, illustre conterraneo d’Abruzzo, è senza dubbio un grande poeta.Lo  riconosceva anche  Benedetto Croce,   che pure non  lo  amava:   In   un  saggio   a   luidedicato   in   uno   dei   primi   numeri   di   “La   Critica”,   agli   inizi   del   secolo   scorso,  così   siesprimeva: “Il poeta c’è, a volte manca l’uomo”. Si possono disapprovare certe sue scelte,tanto nella vita privata quanto nella vita pubblica, ma non si può non riconoscere che lapoesia fu l’essenza stessa della sua vita, che cercò di costruire sul modello di un’operad’arte. Originale modello di “dandy” italiano, cercò di incarnare ciò che  Oscar Wildescriveva di sé: “Feci dell’arte una filosofia, e della filosofia un’arte”. E’ sempre opportunotener   separate   arte,   politica   e   morale   quando   si   giudica   un’artista   del   calibro   diD’Annunzio, se non si vuol correre il rischio di rendere un cattivo servigio all’arte, allapolitica e, in ultima analisi, alla morale stessa.Gabriele   D’Annunzio  è   poeta   sempre,   non   solo   quando   compone   versi,   ma   anchequando parla, quando passeggia, quando corrisponde con un amico, quando scrive ad unadonna, quando scava nel significato delle parole per cavarne suoni nuovi. La poesia, cheaffonda le sue radici in quella zona misteriosa dello spirito dove la parola si fonde conl’essenza delle cose, è per lui una religione di cui si sente sacerdote. Ad Andrea Sperelli,il protagonista del suo romanzo “Il piacere”, mette in bocca queste parole, attinte da unasua precedente lirica: “O poeta, divina è la parola; nella pura Bellezza  il  cielripose ogni letizia; e il verso è tutto”.A   lui   va,   non   ultimo,   il   merito   di   aver   rinnovato,   insieme   a  Giovanni  Pascoli,   illinguaggio stesso della poesia italiana. Poeta sempre, si diceva, in pace e in guerra, nelbeffardo volo su  Vienna  e al comando  dell’impresa  fiumana:  poeta della  patria. Ci  sipotrebbe azzardare a dire, se la cosa non suonasse un po’ cinica, che per lui andare inguerra è un modo per fare poesia con altri mezzi: il poeta-soldato è un poeta che veste ipanni del soldato. C’è un episodio poco noto della sua avventura militare, quando, imbattendosi al fronte inun soldato del quale riconobbe l’accento abruzzese, ebbe con lui il seguente colloquio (cheriferisco così come ricordo), in dialetto, in quella lingua che sa andare diritta alle cose,senza tanti giri di parole:- Ma si abbruzzés tu? (Ma sei abruzzese tu?)- Scì, e tu chi sì? (Sì, e tu chi sei?)- So’ Gabriele D’Annunzio (Sono Gabriele D’Annunzio)- Ah...si D’Annùnzie, e che stì a ffà ècch? (Ah…sei D’Annunzio, e che stai a fare qui?)- Quéll’ che stì a ffà tu…  (Quello che stai a fare tu)- Statt accort, ka ècch s’ mòr…  (Statti accorto, perché qua si muore…)- Statt accort pur’ tu…  (Statti accorto pure tu…)- Eh...ma s’ mòr ji n’ succéd nnént, ma s’ t’ mòr tu, chi gl’arfà ùn’ cumm’a ti?(Eh… ma se muoio io non succede niente, ma se muori tu, chi lo rifà uno come te?)Stupendo! Si stenta a capire chi tra i due è il vero poeta in questo dialogo, se il Vate giàcelebre o l’oscuro fante incolto, ma perfettamente in grado di cogliere il valore dell’arte.Gabriele D’Annunzio, a ottant’anni dalla morte: un gigante della letteratura italiananato e cresciuto sotto il cielo del nostro magico Abruzzo."


di Giuseppe Lalli

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