"Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.Ora in terra d’Abruzzi i miei pastorilascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono all’Adriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor d’acqua natìarimanga ne’ cuori esuli a confortoche lungo illuda la lor sete in via.Rinnovato hanno verga d’avellano.E vanno pel tratturo antico al piano,quasi per un erbal fiume silentesu le vestigia degli antichi padri.O voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!Ora lungh’esso il litoral camminala greggia. Senza mutamento è l’aria.Il sole imbionda sì la viva lanache quasi dalla sabbia non divaria.Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori.Ah perché non son io co’ miei pastori? L’AQUILA - Quelli sopra riportati sono i versi di una celebre poesia che GabrieleD’Annunzio (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938) scrisse nel 1903, conosciuta con iltitolo “I pastori”.
Il titolo autentico della lirica è “Rimembranze”, ed effettivamente ci fatornare alla mente un Abruzzo ancestrale. Trasuda da questi versi, appresi da bambini suibanchi di scuola, l’atmosfera di quel mondo che i racconti dei nostri nonni ci hatramandato, quando, nel mese appena entrato, i loro padri partivano con le greggi verso laPuglia, camminando per giorni lungo “il tratturo antico”. Odori, sapori, voci e rumorisettembrini sembrano sprigionarsi da ogni parola. Una malinconia infinitamente dolcesgorga dalla penna del poeta, che quasi accarezza da lontano la sua terra madre.Sembra di vedere la scena, a San Pietro della Jenca, a Chiarino, a CampoImperatore, o nelle montagne della Maiella, in quei luoghi dell’anima che la memoriaha custodito. Nell’aria frizzante del mattino, ecco i pastori con il cappello, il mantello, anzi“la mantella”, il tascapane rifornito dalle donne di casa a tracolla, e le fanciulle in fiore chesalutano il papà che si accinge a partire con il bastone per compagno; mentre i caniabbaiano a lungo prima di correre in aiuto al padrone. E, finalmente, ecco il fiume di lanache inizia a scorrere, tra il belato delle pecore e i fischi ritmati dei pastori. La transumanza:vera epopea! Meriterebbe che ci si scrivesse un romanzo. Chissà…
Gabriele D’Annunzio, illustre conterraneo d’Abruzzo, è senza dubbio un grande poeta.Lo riconosceva anche Benedetto Croce, che pure non lo amava: In un saggio a luidedicato in uno dei primi numeri di “La Critica”, agli inizi del secolo scorso, così siesprimeva: “Il poeta c’è, a volte manca l’uomo”. Si possono disapprovare certe sue scelte,tanto nella vita privata quanto nella vita pubblica, ma non si può non riconoscere che lapoesia fu l’essenza stessa della sua vita, che cercò di costruire sul modello di un’operad’arte. Originale modello di “dandy” italiano, cercò di incarnare ciò che Oscar Wildescriveva di sé: “Feci dell’arte una filosofia, e della filosofia un’arte”. E’ sempre opportunotener separate arte, politica e morale quando si giudica un’artista del calibro diD’Annunzio, se non si vuol correre il rischio di rendere un cattivo servigio all’arte, allapolitica e, in ultima analisi, alla morale stessa.Gabriele D’Annunzio è poeta sempre, non solo quando compone versi, ma anchequando parla, quando passeggia, quando corrisponde con un amico, quando scrive ad unadonna, quando scava nel significato delle parole per cavarne suoni nuovi. La poesia, cheaffonda le sue radici in quella zona misteriosa dello spirito dove la parola si fonde conl’essenza delle cose, è per lui una religione di cui si sente sacerdote. Ad Andrea Sperelli,il protagonista del suo romanzo “Il piacere”, mette in bocca queste parole, attinte da unasua precedente lirica: “O poeta, divina è la parola; nella pura Bellezza il cielripose ogni letizia; e il verso è tutto”.A lui va, non ultimo, il merito di aver rinnovato, insieme a Giovanni Pascoli, illinguaggio stesso della poesia italiana. Poeta sempre, si diceva, in pace e in guerra, nelbeffardo volo su Vienna e al comando dell’impresa fiumana: poeta della patria. Ci sipotrebbe azzardare a dire, se la cosa non suonasse un po’ cinica, che per lui andare inguerra è un modo per fare poesia con altri mezzi: il poeta-soldato è un poeta che veste ipanni del soldato. C’è un episodio poco noto della sua avventura militare, quando, imbattendosi al fronte inun soldato del quale riconobbe l’accento abruzzese, ebbe con lui il seguente colloquio (cheriferisco così come ricordo), in dialetto, in quella lingua che sa andare diritta alle cose,senza tanti giri di parole:- Ma si abbruzzés tu? (Ma sei abruzzese tu?)- Scì, e tu chi sì? (Sì, e tu chi sei?)- So’ Gabriele D’Annunzio (Sono Gabriele D’Annunzio)- Ah...si D’Annùnzie, e che stì a ffà ècch? (Ah…sei D’Annunzio, e che stai a fare qui?)- Quéll’ che stì a ffà tu… (Quello che stai a fare tu)- Statt accort, ka ècch s’ mòr… (Statti accorto, perché qua si muore…)- Statt accort pur’ tu… (Statti accorto pure tu…)- Eh...ma s’ mòr ji n’ succéd nnént, ma s’ t’ mòr tu, chi gl’arfà ùn’ cumm’a ti?(Eh… ma se muoio io non succede niente, ma se muori tu, chi lo rifà uno come te?)Stupendo! Si stenta a capire chi tra i due è il vero poeta in questo dialogo, se il Vate giàcelebre o l’oscuro fante incolto, ma perfettamente in grado di cogliere il valore dell’arte.Gabriele D’Annunzio, a ottant’anni dalla morte: un gigante della letteratura italiananato e cresciuto sotto il cielo del nostro magico Abruzzo."
di Giuseppe Lalli
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